RACCONTO: TUTTO PUO' ACCADERE

04.01.2016 12:37

... Perché arriverà un giorno in cui ti alzerai da quel letto, sapendo che fuori da quelle mura in cui ti sei barricata per anni esiste una vita diversa da quella a cui tu stessa ti sei condannata e solo allora potrai ricominciare a sognare…

 

L’ho visto con i miei occhi, quei mugolii mi hanno risuonato nelle orecchie come delle campane a lutto, rischiando di diventare pazza, la rabbia mi stava mangiando lo stomaco e non sapevo più dove sbattere la testa.

L’orologio segnava le diciannove, la giornata al lavoro mi aveva distrutta, ma ormai ero arrivata a casa. Scesi dall’auto, faceva un freddo terribile, i lampioni della strada erano spenti, pensai ad un guasto, ma trovarmi in quel viottolo buio mi creava una discreta inquietudine. Rovistai dentro la borsa disordinata alla ricerca delle chiavi, più le cercavo e meno le trovavo, si sa le borse delle donne sono un mettitutto portatile. Entrai nell’ingresso, accessi la luce, tirai un sospiro di sollievo e mi incamminai per le scale. Mentre salivo pensavo al fatto che Marco fosse già rientrato, oggi avrebbe dovuto finire il turno alle quattordici ed ero certa che stesse preparando una deliziosa cenetta tutta per noi. Stavo riflettendo sul come dirglielo, su quali parole usare. “Se gli dicessi che saremo in tre? No, troppo banale. Se gli lasciassi i risultati delle analisi sopra il cuscino? Sarebbe carino, ma non so. E se invece gli mettessi queste scarpine da neonato che ho comprato all’uscita dal laboratorio analisi nella sua sedia, così quando la scosterà per sedersi le vedrà? Si, ho deciso, farò in questo modo.”

Aprii la porta, la luce del reparto giorno era spenta, come mai? Iniziai a sentire degli strani rumori, ma non capivo cosa fossero. Rimasi impietrita ad ascoltare, era come se stesse cigolando qualcosa, uno strano cigolio con dei tempi ben scanditi. Poco dopo delle voci, un lamento, oppure. Accesi la luce e mi diressi verso quei rumori che inevitabilmente portavano verso la camera da letto.

La porta era semiaperta, dalla penombra vidi dei vestiti a terra e due sagome nel nostro letto. Riconobbi in quelle sagome Marco, ma lo schifo che stavo provando non mi dava modo di far nulla. Mi sentivo paralizzata, inerme, sconvolta. Non potevo restare lì ancora, dovevo trovare il coraggio di fare qualcosa e affrontare quella realtà. Accesi la luce e lo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi fu raccapricciante. Avevo il voltastomaco. Dalla mia bocca non uscì neppure mezza parola, perché l’evidenza non poteva essere commentata.

Marco smise di penetrare quella donna, si precipitò verso di me, nudo e odorante di sesso, mi prese per le mani e mi supplicò di perdonarlo. Avrei voluto dirgli talmente tante di quelle di parole, ma nessun suono uscì dalla mia bocca.

Mi liberai da quella terribile presa, iniziai a correre attraverso il corridoio, la cucina,  fin quando mi ritrovai per le scale. Non provò neppure a seguirmi o a dirmi qualsiasi altra cosa. Da quel momento in poi ho un buco nero. Non riesco a ricordare più nulla. Mi risvegliai dopo quindici giorni in terapia intensiva. Venni informata del fatto che purtroppo caddi per le scale e restai in coma per tutti quei giorni. Il mio bambino non riuscì a sopravvivere, forse anche lui non avrebbe voluto un uomo del genere al suo fianco.

Ci sono voluti mesi prima che mi rialzassi da quel letto. La caduta non aveva riportato lesioni tali da crearmi danni irreversibili, evidenti o difficoltà motoria, ma di fatto le mie gambe e le mie braccia non rispondevano agli stimoli, non rispondeva a niente.

Ogni mia certezza era sfumata, l’uomo che credevo mi amasse si era preso la briga di fare sesso con un’altra nel nostro letto, la sera stessa in cui avevo ripreso le analisi e sapevo di aspettare il nostro bambino. Parlarne così da l’idea del solito filmetto da quattro soldi, girato da un regista esordiente, ma oltre una trama scontata ci sono io, io che non avevo il coraggio di continuare a vivere, quando era il mio stesso corpo che lo stava chiedendo. Se ero sopravvissuta a quell’incidente, se il mio corpo in qualche maniera voleva sopravvivere, perché la mia mente gli impediva di farlo? Passavo giornate intere, una volta uscita dalla rianimazione a guardare il soffitto. Mi nutrivo soltanto perché qualcuno voleva lo facessi e quel poco che mi desse la forza di voltare gli occhi per rispondere si o no, per respirare.

Le persone che mi amavano veramente erano tutte attorno a me, e solo oggi lo riesco a comprendere, solo oggi a distanza di anni riesco a comprendere che Marco aveva lanciato delle avvisaglie ben evidenti, ma io non le avevo volute comprendere.

In tutto ciò però potrei dire di provare a capire Marco, posso anzi dire che se Marco abbia fatto ciò che ha fatto evidentemente avrà avuto le sue maledettissime motivazioni, che ora non mi interessa neppure di sapere, ma sopra ogni cosa quello che mi fa rabbia e che non riuscirò a perdonargli è "perché aver cercato un figlio, perché avermi resa materna"?

Dopo anni che sono stata a piangermi addosso, dopo anni trascorsi a non trovare la forza di riscoprire quanto sia meraviglioso svegliarsi ogni mattina, ammirare l’alba e decidere cosa fare di questo nuovo giorno e del successivo e della settimana che verranno, domani riprenderò a lavorare.

Una cosa per certo l’ho capita, se avessi mollato oggi non sarei qui a osannare la vita e dire che tutto può accadere ma solo noi, se lo vogliamo siamo in grado di risalire, andare avanti e provare a vivere di nuovo nonostante una ferita profonda ci abbia cambiati.