VIOLENZE PSICOLOGICHE: STALKING

18.09.2015 15:23

Lo stalking costituisce una forma di condotte persecutorie volte a generare sofferenza nella vittima; è una bizzarria in quanto lo stalker dice di amare la vittima, ma in realtà quando si ama una persona si agisce con lo scopo di renderla felice. Ha un concetto alterato di amore e di quello che è bene per la vittima. Di solito è certo di far bene alla vittima ma il risultato è solo paura, dolore e solitudine. Di per se è un soggetto che non è in grado di sopportare gli abbandoni e di elaborare un lutto, ossia il distacco dall’altro. Questa inammissibilità lo spinge a inseguire e ristabilire quella condizione di vicinanza con la vittima che ormai è morta, ma che lo stalker è sicuro di poter riavere tenendo sotto controllo la persona e la relazione. Lo stalker preferisce una situazione non definita, ma dove ha il controllo  dell’altra persona, invece che la certezza di un abbandono che lo frantumerebbe. Lo stalking consta una fila di comportamenti messi in atto dal partner o ex partner al fine di accertare e limitare la libertà della persona attraverso forme di persecuzione delle quali le vittime nella maggior parte dei casi sono donne.

Cos’è lo stalking? Con quali dinamiche si manifesta? In se è costituito, nella prima fase, da una serie di comportamenti come comunicazioni insistenti e non desiderate telefonicamente, messaggi lasciati nella segreteria telefonica, per posta, sms, mms, e-mail, messaggi piantati davanti a casa, sul parabrezza della macchina, inseguimenti, poste, che possono diventare ossessivi o persecutori se reiterati nel tempo, suscitando nella vittima timore e panico. La vittima in tutto ciò cerca di vigilare la collera del partner, sviluppando quel “io ti salverò”, verso il partner, questo perché crede che in qualche misura lui possa cambiare.

Da questa prima fase, si può passare alla seconda, chiamata“dell’esplosione” dove gli episodi di violenza agita aumentano e la donna è portata alla salvaguardia della sopravvivenza. Non ostante ciò la vittima tende a sviluppare strategie, per visionare gli scatti d’ira dell’altro, portandola ad essere accondiscendente, tollerante ed evitando comportamenti proibiti dal partner. In questa fase, dove la vittima comincia a sospettare la sua incapacità di evitare il prossimo attacco, di non essere in grado di cambiarlo, si vedono le prime richieste di aiuto, le prime denuncie.

La terza fase è definita della “falsa riappacificazione”, si ha nel momento in cui il persecutore insorge dinnanzi alla fuga della vittima provando a riappropriarsi di lei, fingendosi plasmabile, e fornendo alla vittima il ruolo di salvatrice del suo male, scaricandosi così anche dal peso degli atti commessi. La fase in questione risulta essere molto complicata poiché se la donna non è aiutata rischia di cadere nella rete dell’isolamento attuatole dal maltrattante, pertanto in quella condizione si trova a pensare al suo tormentatore come alla sua unica speranza, quindi ad accettare la condizione di “meglio ciò che fa terrore piuttosto che il niente e lo sconosciuto”. Il riaccostamento è l’inizio di una pseudo riappacificazione, direttamente proporzionale ai tempi del maltrattante che imporrà i periodi di calma a quelli di orrore. Non è insolito trovare donne che affermano “non è poi così male”, “in realtà non vuole farmi del male”, “non è il mostro che state descrivendo”. Si tratta di un processo inconscio, allo scopo di  proteggersi dall’incapacità di confessare a se stessa l’impossibilità di fuggire; la mancanza di risorse per prendere tale decisione e la frustrazione imposta dall’essere valutata come un oggetto. Le donne maltrattate spesso sono costrette a sopravvivere. Queste donne tendono a  minimizzare ciò che subiscono, a negare la gravità degli atti, ad annientare il ricordo delle violenze, ad autocolpevolizzarsi, a vergognarsi, a perdere di fiducia in sé e nelle proprie capacità

Perché accade questo, perché la vittima non reagisce subito? Una risposta ci viene fornita dal criminologo Nils Bejerot , rifacendosi a quella che lui definisce “Sindrome di Stoccolma”. Secondo Bejerot nel momento in cui si riscontra un grosso stress riguardante una minaccia per la propria incolumità e la propria vita, si genera uno stato di immensa paura, rifiuto della rabbia e dipendenza. Questa dipendenza rappresenta un sistema di difesa, è una tattica di conservazione nei casi in cui non c’è possibilità di scampo. La vittima idealizza il proprio boia, non accetta interventi esterni come le forze dell’ordine, sviluppa sentimenti positivi nei suoi riguardi fino ad innamorarsi. Le donne maltrattate utilizzano la stessa tecnica per controllare emotivamente le incessanti violenze. Lenore Wolker la chiama “Sindrome della Donna Maltrattata”, in quanto se le donne non sono capaci di fuggire da una contesto violento, divengono insicure, deboli, depresse, sottomesse e psicologicamente atrofizzate. Questo fa si che la donna sia incapace di proteggere se stessa e i figli se ce ne sono.

Gli stalker solitamente sono più attempati di altre classificazioni di criminali; in quanto si trovano orientativamente nella fascia di età compresa tra i 35 e i 50 anni. Generalmente hanno precedenti criminali, psichiatrici o di abuso di sostanze stupefacenti. Possono essere affetti da disordini mentali come dipendenza da alcol e droghe, disturbi dell’umore o schizofrenia (disturbi cosiddetti dell’Asse I). Possono manifestare anche disturbi dell’Asse II: disordine narcisistico di personalità, disordine di personalità istrionica e disturbo borderline di personalità. Molti stalker non sono psicotici quando compiono il crimine dello stalking. Lo stalking è una patologia dell’affettività, fatta risaltare da alterazioni affettive dell’infanzia.